Traumi collettivi e funzione della memoria
“Quella della memoria è una funzione cruciale, a servizio delle persone e delle comunità colpite da eventi catastrofici. Si tratta della funzione curante nella elaborazione dei lutti e delle perdite; di una funzione etica che ammonisce contro il ripetersi delle tragedie; di una funzione educante che facilita la prevenzione; di una funzione riaggregante a sostegno dell’identità ferita dei singoli e delle comunità; di una funzione generativa capace di mobilitare nuove e inaspettate energie resilienti; di una funzione esorcizzante contro il ripetersi dell’evento attraverso riti, cerimonie, processioni, capitelli votivi e targhe”.
Con queste parole Gigi Ranzato (Psicologia per i popoli) ha aperto i lavori del IX° Campo Scuola Nazionale degli Psicologi dell’Emergenza, che si è svolto dal 25 al 27 settembre 2015 a Marco di Rovereto, nel Centro di addestramento della Protezione Civile della Provincia Autonoma di Trento. Tre giorni intensi nei quali si è sviluppata e condivisa – attraverso la presentazione di documenti, filmati, drammatizzazioni – un’ampia riflessione sulla funzione della memoria nel processo di elaborazione dei traumi collettivi, una funzione essenzialmente ‘trasformativa’ a patto di riconoscere che ogni atto di memoria ha una natura ancipite (ricordare/dimenticare), una doppia direzione temporale (rivolta al passato/rivolta al futuro), una doppia intensità emotiva (memoria del trauma/trauma della memoria), una molteplicità d’uso (difensiva/trasformativa).
E’ stato istruttivo ‘rileggere’ alcuni capitoli della letteratura sui traumi – dallo Shell Shock al P.T.S.D. (Post-Traumatic Stress Desorder) – attraverso le immagini e le analisi del film-documentario di Enrico Verra Scemi di guerra. La follia nelle trincee, una descrizione accurata dei processi di depersonalizzazione, ai quali furono sottoposti i soldati impegnati nella Prima Guerra Mondiale, costretti a vivere per lunghi mesi in condizioni di estrema precarietà, di insicurezza, di carenza, esposti a malattie, rischi e pericoli, primo fra tutti quello di perdere la vita, a diretto contatto con le espressioni più estreme della distruttività umana e con le forme più variegate di dolore e sofferenza… In tanti ne ricavarono traumi profondi, individuali e collettivi, traumi che la scienza medica ufficiale esitò a lungo a riconoscere come ‘traumi da guerra’, in parte per difficoltà diagnostica, in parte per collusione ideologica con le ragioni che da una parte e dall’altra ‘giustificavano’ e promuovevano il confronto bellico, inteso come espressione di forza, di potenza, di dominio, ma anche come manifestazione di coraggio, di eroismo, di fedeltà e di servizio alla ‘patria’.
Non meno forte, sul piano emotivo, l’impatto con la narrazione del genocidio degli armeni, operato in Turchia nel 1915 dall’ala estremista dei Giovani Turchi, rievocato nel film del 2007 dei fratelli Taviani La masseria delle allodole, e del genocidio dei Toutsi, ad opera degli Hutu, avvenuto in Rwanda nel 1995, nell’indifferenza totale delle grandi nazioni, una tragedia con un milione di morti in 100 giorni, che due giovani (e bravi) attori – Marco Cortesi e Mara Moschini – hanno saputo trasporre in un lavoro teatrale, lucido nella ricostruzione degli antefatti e nella individuazione delle responsabilità, dolente ed empatico nella rappresentazione delle vicende reali di due famiglie – una Hutu, l’altra Tutsi – attraversate in quel terribile contesto da una corrente indistinta di odio e di amore, di crudeltà e di bellezza.
Che siano legati ad una catastrofe naturale o ad una azione diretta dell’uomo, i traumi collettivi che ne derivano si incidono profondamente nella psiche degli individui e non è facile né semplice ‘curarli’. Ad essere colpite non sono solo le funzioni neurofisiologiche che presiedono all’equilibrio e all’adattamento, ma l’intera identità personale. La rottura violenta, temporanea o definitiva, degli assetti relazionali e sociali che ogni comunità ha costruito nel tempo e in un determinato luogo, che si esprimono nel sentimento di appartenenza e di condivisione di uno spazio, di un territorio, di un paesaggio – luoghi fisici e mentali che giustificano e motivano l’abitare in quel posto – può lasciare ‘ferite’ nella memoria individuale e collettiva, che non guariscono con la stessa temporalità delle ferite del corpo o del territorio. Significative, al riguardo, le interviste che abbiamo ascoltato di alcuni sopravvissuti al disastro ‘colposo’ della cittadina di Stava (Trentino) – spazzata via nel 1985 dalla colata di fango, originata dal crollo dei bacini minerari di Prestavel e che causò 268 morti. Ad anni di distanza dal disastro, ogni racconto presenta una sua trama particolare di ricordi e di dimenticanze, di memoria e di oblio: c’è una dimensione assolutamente intima, privata e soggettiva, della sofferenza e del dolore, che accompagna la genesi, lo sviluppo e l’elaborazione dei traumi collettivi, che va in un certo senso riconosciuta, accolta e rispettata, anche quando ci si muove all’interno delle azioni di soccorso in emergenza, azioni che per ragioni comprensibili tendono ad essere definite e standardizzate su parametri comportamentali molto spesso rigidi e semplificati.
E’ questo il compito specifico che gli psicologi che operano nel campo delle emergenze possono e devono assumersi, soprattutto quando – superata la fase del primo soccorso e ristabilita esteriormente una certa ‘normalità’ – per i sopravvissuti diventa doloroso ‘ricordare’ e impossibile dimenticare.