Relazioni pericolose?!
Relazioni pericolose?!
Una delle categorie più utilizzate in diversi ambiti di osservazione e ricerca – dalla chimica alla psicologia, dalla matematica alla sociologia, dalla fisica all’astronomia … – è quella di ‘relazione’. Ne avevano già intuito la pregnanza negli anni Sessanta gli esponenti della Scuola di Palo Alto (Watzlawick, Beavin, Jackson), estendendo al concetto di relazione il significato matematico di funzione (“… in qualche modo le percezioni implicano un processo di cambiamento, movimento o scansione. In altre parole è stato possibile stabilire e astrarre una relazione che a nostro parere è identica al concetto matematico di funzione. Ne consegue che la sostanza delle nostre percezioni non è costituita da ‘cose’, ma da funzioni; e come abbiamo visto le funzioni non sono grandezze isolate ma segni per un nesso… per un’infinità di situazioni possibili di uno stesso tipo… Non deve più sorprenderci neppure che la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente una consapevolezza delle funzioni, delle relazioni in cui si trova implicato” (Pragmatica della comunicazione umana, p. 22 ).
Amicizia, amore, empatia non sono entità metafisiche delle quali se ne può invocare il ‘possesso’ o la ‘proprietà’, ma ‘modalità relazionali’ continuamente sottoposte a verifica e a trasformazioni.
Tuttò ciò sta risultando maggiormente evidente quando decidiamo di aprire una comunicazione/relazione con un’entità digitale. Che dietro lo schermo ci sia una persona reale o un avatar o un algoritmo evoluto di IA generativa la differenza è minima.
“L’empatia simulata non è autentica – osserva Marco Montemagno – ma è talmente credibile da innescare in noi le stesse reazioni emotive che riserviamo alle persone reali. Quando instauriamo un’abitudine relazionale con un’entità digitale, il confine tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale diventa sottile, quasi impercettibile. A quel punto la vera domanda è: che cosa intendiamo davvero per ‘relazione’, quando la controparte non è umana? E quanto siamo disposti ad affidare parti della nostra vita emotiva a sistemi progettati per apparire convincenti? Non parliamo solo di tecnologia: parliamo anche di architettura sociale.
Le intelligenze conversazionali sono ormai veri e propri spazi in cui viviamo – invisibili, ma progettati. Un pò come scegliere chi far entrare ogni giorno in casa nostra: la presenza dell’IA può diventare familiare e rassicurante, ma è fondamentale decidere in anticipo quali stanze potrà visitare e quali resteranno private, per proteggere il nostro equilibrio tra utilità e autonomia. E’ inevitabile che la nostra esposizione quotidiana a questi sistemi influenzi anche il modo in cui ci relazioniamo con le altre persone. Un’IA che risponde sempre con calma, pazienza e coerenza rischia di alterare le nostre aspettative verso gli esseri umani, che per natura sono più imprevedibili e imperfetti. Allo stesso tempo, l’abitudine a delegare creatività e pensiero critico può finire per assottigliare competenze che un tempo consideravamo indispensabili” (L’Espresso, 15.09.25).
Se attorno a noi il livello di complessità aumenta, anche le categorie interpretative che usiamo non possono più essere quelle derivate da un mondo più ‘semplice’…
