Istruzioni per rendersi infelici
Se un volumetto dal titolo “Istruzioni per rendersi infelici” raggiunge la trentesima edizione (Feltrinelli, 2024) – la prima risale al 1984 – vuol dire che il problema persiste e che (malgrado le evidenze) la ricerca ‘attiva’ della felicità non sembra il metodo migliore per trovarla. Lo aveva capito bene Paul Watzlawick, quello della Pragmatica della comunicazione umana.
Avendo verificato che manuali e consigli di guru e maestri della felicità – molto diffusi nelle moderne società del benessere – raramente funzionavano, Watzlawick pensò di approfondire le strategie opposte: quelle che assicurano in maniera infallibile l’infelicità! Il materiale – in letteratura, ma soprattutto in psichiatria e in psicologia – non mancava, anche se le indicazioni erano “alquanto rare e solitamente del tutto casuali” (p. 11). Con un un po’ di impegno, tuttavia, egli riuscì a definire una certa metodica e ad individuare i meccanismi più sfruttabili e verificabili dell’infelicità. Ne ricavò successivamente delle precise ‘istruzioni per l’uso’, con annessi gli esercizi per i più volenterosi, nella convimzione che “tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta certamente qualche sventura personale” (ib.)
Sul filo costante del paradosso e dell’ironia, Watzlawick ci offre una carrellata di situazioni e di comportamenti, che riconosciamo facilmente per averli osservati negli altri o per averli ‘sfiorati’ anche noi personalmente. Ne scaturiscono messaggi ambivalenti e complessi, che non sufficientemente tollerati e sostenuti mentalmente, inducono a ripetizioni comportamentali o a circuiti emotivi semplificati, che diventano inevitabilmente precursori di disagio e quindi di sicura ‘infelicità’.
Una lettura piacevolissima, dalla quale emergono qua e là freccette ben appuntite nei confronti di chi semplifica per superficialità o eccessiva fretta la condizione umana di fronte alle vicende dell’esistenza o di quelle pratiche psicologiche, che presumono di aver trovato accessi diretti e immediati alla costruzione del ‘benessere’, evitando la complessità (e a volte anche la complicazione) del reale e proponendo ricette che in modo coatto dovrebbero produrre magicamente ‘positività’ e ‘spontaneità’.
“Tra tutte le complicazioni, i dilemmi e le insidie che possono esistere nella struttura della comunicazione umana, l’assurdità del cosiddetto ‘Sii spontaneo’ è certamente la più diffusa. Si tratta di un vero e proprio paradosso, che soddisfa tutte le regole della logica formale. Nell’atmosfera cristallina dell’olimpo logico, costrizione e spontaneità (cioè quanto liberamente e senza influssi esterni proviene dalla propria interità) sono inconciliabili. Essere spontanei ubbidendo ad un ordine è tanto impossibile quanto dimenticare intenzionalmente qualcosa o scegliere di dormire più profondamente. O si agisce spontaneamente, quindi di propria iniziativa, oppure si esegue un ordine e in questo caso non c’è alcuna spontaneità” (pp. 69/70).