Insegnamento e Eros
“Se il nostro tempo è il tempo della dissoluzione della potenza della tradizione, se è il tempo dove il padre è evaporato, nessun insegnante può più vivere di rendita”. (p. 4)
Così esordisce Massimo Recalcati – psicoanalista di fama e osservatore attento non soltanto di setting clinici – presentando il suo ultimo lavoro, pubblicato da Einaudi, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. E’ una riflessione ‘a caldo’, che cerca di cogliere della scuola le dinamiche ‘sotterranee’, gli assetti emotivi più profondi che agitano il mondo psichico interno dei docenti, degli allievi e dei genitori, un mondo che quotidianamente ‘va in scena’ in ogni classe di ordine e grado, ma del quale se ne ha consapevolezza in modo molto intermittente.
“ Quando un insegnante entra in aula – continua Recalcati – (o quando un padre prende la parola in famiglia), deve ogni volta guadagnare il silenzio che onora la sua parola, non potendosi più appoggiare sulla forza della tradizione – che nel frattempo si è sbriciolata – ma facendo appello alla sola forza dei suoi atti”. (ibidem)
La tesi non è nuova. Dal ’68 in poi sociologi e psicologi vanno ripetendo che la crisi di credibilità e di efficacia educativa della scuola (e della famiglia) – istituzioni intimamente simbiotiche per simmetria e complementarietà di ruoli e di funzioni – è iniziata con l’attacco al padre, con la ‘contestazione’ di quella auctoritas, che per gradi e trasposizioni reali e simboliche, dal ‘pater familias’ si estendeva alla società, permettendo e giustificando la ‘fondazione’ della Legge, del Diritto, dello Stato e delle sue Istituzioni, scuola compresa.
E’ stato Freud a suggerire per primo questa lettura, quando ha individuato nell’intimità fantasmatica delle dinamiche pulsionali, che caratterizzano il “complesso di Edipo”, la matrice generativa ed evolutiva non solo delle relazioni intra-familiari, ma degli assetti sociali più ampi.
Recalcati prova ad applicare alla scuola questo codice interpretativo, affiancando al più conosciuto “complesso di Edipo”, quello di “Narciso” e quello di “Telemaco”.
I tre personaggi del mito e dell’epica greca – figure paradigmatiche di esperienze emotive particolari e di ‘azioni estreme’ – ben si prestano a ‘rappresentare’ sul piano reale e simbolico stati particolari della mente e del comportamento umano. Parlando di ‘complesso’, in psicoanalisi, si afferma qualcosa di più, che queste ‘rappresentazioni’ non sono soltanto paradigmi culturali, ma veri e propri “organizzatori inconsci” che orientano non solo la vita, le relazioni, il comportamento degli individui, ma anche quelli dei gruppi e delle istituzioni.
“Nella Scuola-Edipo l’insegnante si trova nel posto dell’autorità, è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo, in quanto figlio, deve essere appunto istruito e educato come fosse una cera da plasmare… L’apprendimento risponde così al criterio autoritario e conformistico dell’obbedienza. Il sapere trasmesso è un sapere senza soggettività, privato di singolarità, centrato sull’auctoritas della tradizione” (p. 21).
Facile riconoscere in questa descrizione quella scuola-istituzione che le contestazioni del ’68 e del ’77 misero in crisi insieme all’omologo modello di famiglia, facendo saltare quel patto generazionale che aveva unito, fino ad allora, genitori e insegnanti in una alleanza ‘educativa’ che, sia pure autoritaria e conformista in molte sue espressioni, assicurava comunque una forma di limitazione all’onnipotenza del desiderio infantile introducendo il principio di realtà.
Alla liquefazione di ruoli, di regole e di confini, osserva Recalcati, segue l’affermazione del figlio-Narciso. “Se la tragedia di Edipo è la tragedia del conflitto con la Legge, del conflitto con il padre… quella di Narciso è la tragedia tutta egoica del perdersi nella propria immagine, del mondo ridotto a immagine del proprio Io” (p. 24). Ciò che è grave è che il narcisismo dei figli collude molto spesso con il narcisismo dei genitori. L’evitamento del conflitto, del quale molti genitori sembrano avere timore (ma soprattutto difficoltà di gestione), li porta ad esaltare e a soddisfare (anche preventivamente) qualunque desiderio dei figli all’insegna di un presunto “ideale di prestazione”, che finisce con l’accomunarli. I genitori “si sentono più impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita senza traumi, che non a incarnare il senso simbolico della Legge” (p. 25).
E la scuola? E gli insegnanti? Quando vengono percepiti come un ostacolo alla gratificazione narcisistica dei figli, anche gli insegnanti diventano per i genitori un ‘nemico’ da ‘eliminare’ o ‘bypassare’.
Molti insegnanti vivono così in una condizione di totale solitudine, mortificati economicamente e socialmente nel residuo ruolo di “rappresentare quel che resta della differenza generazionale e del compito educativo, a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi” (p. 25).
Altri insegnanti – e questo discorso investe la funzione stessa della scuola – finiscono con l’assecondare anch’essi la condizione di ‘narcisismo’ degli allievi, soprattutto quando – azzerata ogni istanza educativa – mettono a centro dell’attività didattica e dell’apprendimento quello stesso ‘principio di prestazione’, che misurato e valutato alla luce di modelli ipercognitivisti e ipertecnologici trasformano l’ambiente scuola in una sorta di ambiente ‘azienda’, dove processi e prodotti vengono ‘trattati’ secondo parametri di rapporto costi/benefici, come si trattasse di una ‘produzione industriale’. “La Scuola-Narciso tende a polverizzare il libro in favore di un’enfatizzazione della tecnologia informatica, seguendo l’illusione di un sapere illimitato e disponibile senza fatica. Il dilagare post-umano delle nuove tecnologie e l’enfasi libertaria che sovente l’accompagna rischia di rendere i computer strumenti che amplificano le possibilità della conoscenza nella tentazione di fare a meno della parola, del passaggio obbligato attraverso la lingua e la sublimazione. Il rischio è quello di rendere lo schermo del proprio pc o iPad uno specchio vuoto che, anziché aprire mondi, li richiude in una autoreferenzialità mortifera” (p. 27).
Altri insegnanti, infine, finiscono con il ‘confondersi con i loro allievi: ne accettano e giustificano ogni atteggiamento e comportamento, ne diventano ‘amici’ o ‘confidenti’, ne condividono ‘empaticamente’ delusioni e frustrazioni, per ritrovarsi magari – tutti insieme… ‘narcisisticamente’ – sulle pagine ‘Facebook’!
La Scuola-Telemaco – afferma Recalcati – non è la scuola del futuro, ma quella che potrebbe nascere tra le faglie della Scuola-Edipo e della Scuola-Narciso, e che in un certo senso (anche se in modo minoritario) c’è sempre stata.
Telemaco è il ‘figlio’ che non vuol far fuori il padre per sostituirsi a lui (come Edipo), né il figlio che si perde nella contemplazione della propria immagine. E’ il figlio che attende il ‘ritorno di Ulisse’, il ritorno del padre, l’unico che può riportare ‘ordine’ nella devastazione che si è prodotta nella sua casa e nella sua famiglia a causa della sua assenza e dalla irruzione dei Proci che dilapidano le sue ricchezze e attentano alla sua donna. (I Proci simboleggiano sul piano psichico le pulsioni primitive del desiderio ‘incestuoso’).
Telemaco non aspetta passivamente questo ritorno: appena può si mette alla ricerca delle ‘orme paterne’ “Telemaco riconosce il debito simbolico verso il padre, non lo vive come un nemico nel crocevia del suo desiderio […] Telemaco salta il fossato di quell’assenza, si mette in moto, compie un viaggio sulle orme del padre assente. Compie il viaggio dell’ereditare in cui si realizza ogni ricerca di questo nome” (p. 34).
La Scuola-Telemaco, allora, è la scuola che mette al centro del proprio operare il desiderio come ricerca. Una bella sfida per allievi e insegnanti stabilire con il mondo dei saperi (e quindi con i processi di conoscenza) un tale rapporto, che non riguarda solo la sfera intellettiva e cognitiva, ma quella più intima delle emozioni: è la ricerca di una forma diversa di godimento, che passa attraverso la capacità dell’insegnante di saper generare negli allievi, attraverso il suo lavoro quotidiano, attraverso la parola e il linguaggio incarnato, la presenza e l’attenzione, lo stile e la cura della lezione, non solo interesse per ciò che insegna, ma ‘piacere’, ‘amore’: “Sono i maestri che non scordiamo, quelli che hanno lasciato un’impronta indelebile dentro di noi. E’ l’etimo del verbo insegnare: lasciare un’impronta, un segno, nell’allievo. Non li scordiamo non solo per quello che ci hanno insegnato, per il contenuto dei loro enunciati, ma innanzitutto per come ce lo hanno insegnato… E’ quello che più conta nella formazione di un bambino o di un giovane. Non il contenuto del sapere, ma la trasmissione dell’amore per il sapere” (p. 104).
Per un’erotica dell’insegnamento, dunque, che temo nessun TFA (Tirocini formativi attivi) o PAS (Percorsi abilitanti speciali) potrà insegnare ai futuri docenti, ma senza la quale la scuola non vive.