Del vivere e del morire
Il discorso che Antonio Damasio porta avanti in Emozione e coscienza (2000) sulle basi biologiche della mente, se da un lato mette fuori campo le teorie che hanno straparlato delle funzioni ‘superiori’ (cognizione e coscienza incluse), prescindendo dalla dimensione corporea, dall’altro costringe tutti (biologi, neurofisiologi, medici, psicologi e filosofi) a rivedere la tradizionale visione del corpo, alla luce di un “principio di equivalenza”, che fa saltare ogni distinzione ‘gerarchica’ – e in ultima analisi ogni forma di ‘dualismo’ strutturale – tra processi mentali e processi somatici.
La maggior parte dei termini, che si utilizzano in psicologia per descrivere e comprendere le funzioni mentali, hanno risentito necessariamente del dualismo mente/corpo, che ha storicamente caratterizzato la cultura occidentale. Anche se l’atteggiamento positivista di fine Ottocento, esaltando il metodo sperimentale, aveva ‘contribuito’ a sfrondare la psicologia dalle chiome più idealistiche ed evanescenti, la rigidità e la ‘ristrettezza’ di quel paradigma (in realtà del modello fisico e biochimico allora utilizzato per spiegare ‘gli organismi viventi’), non erano riuscite a dare conto della complessità e varietà dei processi psichici e mentali. Che continuarono ad essere meglio ‘indagati’ ed ‘esplorati’ attraverso approcci ‘misti’ che – come la psicoanalisi – praticavano una maggiore libertà di osservazione e di riflessione, di analisi dei dati e di interpretazione, mettendo insieme fenomenologia e clinica, biologia e letteratura, in qualche caso anche fisica e … metafisica.
Il linguaggio ‘psicologico’ ha così continuato ad arricchirsi tecnicamente, per tutto il Novecento, di nuovi termini, di originali ‘costrutti’, di molteplici teorie e di una pluralità di sistemi, dotati alcuni di un discreto tasso di coerenza interna, senza che si sia messo realmente in discussione il dualismo mente/corpo. Un ‘dualismo’ in un certo senso funzionale all’affermazione della psicologia e in parte ‘garantito’ dalla persistente irriducibilità del ‘paradigma psicologico’ a quello ‘biologico’. Malgrado non siano mancati tentativi di ‘assimilazione’ o di ‘fusione’, i due territori – quello della ‘mente’ e quello del ‘corpo’ – hanno mantenuto identità distinte (un corollario evidente lo si ritrova nei rapporti che ancora caratterizzano medici e psicologi), anche se negli ultimi decenni si sono moltiplicate le ‘invasioni di campo’, in entrambe le direzioni, e il dialogo si è fatto più vivace e animato.
Ne consegue che le tradizionali categorie corpo e mente vanno acquisendo confini così sfumati e collegamenti così sorprendentemente interconnessi da apparire piuttosto come due vertici di lettura di un’unica realtà, che non due entità separate e interdipendenti. Damasio spinge coraggiosamente verso questa direzione. Se va superato l’errore cartesiano della distinzione e opposizione tra ‘res extensa’ e ‘res cogitans’, eliminando anche il trattino, che ancora si usa, quando si parla di psico-somatica, appare evidente che occorre rivisitare il significato di tutte quelle parole (come “pensiero”, “coscienza”, “sentimento”, “memoria”, “intelligenza”, “immagine”, “progetto”, ”decisione”, “scelta”, “opzione”…), che tuttora usiamo, assegnando spesso ad esse localizzazioni e funzioni non sulla base di una verifica incrociata di tutte le mappe cerebrali e cognitive – che si attivano ‘simultaneamente’ ai diversi livelli di organizzazione somatica e mentale con le relative ‘esperienze’ vissute, percepite e ‘narrate’ dal soggetto – ma ripetendo stancamente ‘luoghi comuni’ in rispetto alla ‘tradizione’ o (più semplicemente) alle ‘gerarchie accademiche’ costituite.
In questa prospettiva anche dalla semplice osservazione di ciò che succede nel nostro organismo può nascere una serena e laica riflessione sul vivere e sul morire, in grado di avvalersi tanto dei principi di ‘immanenza’ della scienza, quanto del valore (trascendente?) della ‘coscienza’.
“Alla fine della nostra esistenza siamo deteriorati e moriamo, ma è anche vero che la maggioranza delle nostre parti si deteriora nel corso della nostra vita ed è sostituita da altre parti deteriorabili. I cicli di morte e nascita si ripetono molte volte durante la vita – alcune cellule del nostro corpo sopravvivono soltanto per una settimana, la maggior parte per non più di un anno; le eccezioni sono i preziosi neuroni del cervello, le cellule muscolari del cuore e le cellule del cristallino. Per la maggior parte, i componenti che non vengono sostituiti – come i neuroni – vengono modificati dall’apprendimento. (In effetti, non essendovi nulla di sacro, succede che vengano sostituiti anche i neuroni). La vita altera il comportamento dei neuroni, per esempio modificandone le connessioni con altri neuroni. Non c’è nessun componente che rimanga invariato per molto tempo e le cellule e i tessuti che costituiscono il nostro corpo oggi per la maggior parte non sono gli stessi di quando eravamo ragazzi. Ciò che rimane identico, in buona parte, sono il progetto costruttivo della struttura del nostro organismo e i valori di riferimento per il funzionamento delle sue parti. Chiamiamolo spirito della forma e spirito della funzione.
Quando scopriamo di che cosa siamo fatti e come veniamo costituiti, scopriamo un incessante processo di edificazione e abbattimento e ci rendiamo conto che la vita è alla mercè di questo processo senza fine. Come i castelli di sabbia della nostra infanzia, può essere cancellata in un attimo. E’ sbalorditivo che vi sia un senso di sé, che vi sia – per tutti, per i più, per alcuni – una qualche continuità di struttura e di funzione che costituisce l’identità, quell’insieme di tratti comportamentali stabili che chiamiamo personalità. E’ davvero incredibile, e quanto meno sorprendente, che voi siate voi e io sia io.
Ma il problema va oltre la mortalità e il rinnovamento. Così come i cicli di morte e vita ricostruiscono l’organismo e le sue parti secondo un progetto, il cervello ricostruisce il senso di sé momento per momento. Non abbiamo un sé scolpito nella pietra e, come la pietra, resistente a tutti i danni del tempo. Il senso di sé è uno stato dell’organismo, il risultato del fatto che certi componenti funzionano in un certo modo e interagiscono in una certa maniera, nell’ambito di una certa variazione dei parametri. E’ un’altra costruzione, una configurazione vulnerabile di operazioni integrate da cui consegue la generazione della rappresentazione mentale di un singolo essere vivente. L’intero edificio biologico, dalle cellule, dai tessuti e dagli organi fino ai sistemi e alle immagini, è tenuto in vita dalla costante esecuzione di progetti costitutivi, sempre sul punto di un collasso parziale o completo, nel caso che il processo di ricostruzione e rinnovamento si interrompa. I piani di costruzione sono tutti imbastiti intorno all’esigenza di tenersi lontani da quel punto” (pp. 178-179).