Che stress… lo stress!
Mentre tramontano vocaboli “come ‘dolore’, ‘passione’, ‘tristezza’, ‘fiducia’, tra quelli che stanno a ponte fra linguaggio specialistico e linguaggio quotidiano, fra condizioni esistenziali e forme psicopatologiche, il termine ‘stress’ detiene oggi un primato d’uso e di ‘audience’, che ne fa senza dubbio uno degli specchi favoriti della nostra epoca e una chiave di lettura privilegiata del disagio contemporaneo”. Così Simona Argentieri e Nicoletta Gosio nel pamphlet, edito da Einaudi (2015), Lo stress e altri equivoci: una ironica e acuta riflessione sul progressivo depauperamento semantico delle nostre comunicazioni quotidiane, sintomo forse (più che causa) di un impoverimento emotivo, che caratterizza sempre più le nostre relazioni.
Pur avendo a disposizione uno spettro ampio di parole per caratterizzare i diversi stati d’animo e pur sapendo che una condizione di noia è profondamente diversa da uno stato di paura o di stanchezza o che la reazione di collera ad un imprevisto meriterebbe una carrellata di attributi differente da quella che ci suscita una esperienza di delusione, rinunciamo facilmente e pigramente ad ogni sforzo di discriminazione verbale per rifugiarci comodamente sotto l’ombrello dello stress. E così “lo stress si mangia… ogni sfumatura del variopinto lessico dell’emotività e al contempo arresta il discorso sulla concatenazione degli eventi, esterni ed interni, in un cortocircuito di cause-effetti immediato e sbrigativo” (p. 4).
Non c’è persona che non si assegni in défault un determinato ‘quantitativo di stress’, al quale – tra il compiaciuto e il sofferente – non ‘correli’ le défaillances del suo corpo o della sua mente o dell’intero suo comportamento. Non c’è malessere collettivo o disagio sociale per il quale l’esperto di turno non scomodi lo ‘stress della vita moderna’ e non proponga come rimedio interventi (naturalmente) ‘anti-stress’. Non c’è situazione di vita che non venga prima o poi individuata come generatrice di stress e anche sul ‘posto di lavoro’ (a dispetto della disoccupazione dilagante) attenti psicologi ricercano con questionari alla mano i segnali preoccupanti dello stress lavoro-correlato. Per gli amanti delle check-list – ma anche per dare una parvenza di ‘oggettività’ al fenomeno – sono state compilate rigorose ‘classifiche’ degli eventi ritenuti più stressanti. E anche se non è chiara la metodologia statistica utilizzata, ai primi posti (con uguale pesatura) si segnalano ‘la separazione’ e ‘il matrimonio’, ‘il pensionamento’ e ’il licenziamento’, ‘un viaggio’ e ‘un trasloco’… Eventi eccezionali e routine quotidiana vengono così assimilati e fusi in un’unica percezione di disagio e di sofferenza: “… tutto è un problema, tutto ‘è stressante’, come indebita e maligna richiesta della quotidianità a far fronte alle richieste della realtà, a tradire quella che viene vissuta come una legittima esigenza di benessere e quiete” (p. 8).
Eppure quando Seyle ne osservò per primo, nel 1936, le diverse manifestazioni – arruolando per questa causa scientifica circa quindicimila topolini – e ne interpretò la funzione in termini di ‘sindrome generale di adattamento’, spiegandone il meccanismo fisiologico di azione (=l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene), lo stress sembrava destinato a diventare uno degli oggetti di studio e di ricerca più promettenti. Previsione in buona parte verificatasi – vista l’ampia e sterminata letteratura sull’argomento – ma non nella direzione che si augurava lo scienziato austriaco.
Seyle aveva da subito sottolineato la funzione ‘positiva’ dello stress nell’assicurare il mantenimento e il rafforzamento degli equilibri adattivi. In quanto risposta biologica, che permette agli esseri viventi di ‘attenzionare’ con immediatezza i segnali di ‘allarme’ e di approntare un sofisticato quanto efficace sistema di difesa in grado di tollerare (per un certo tempo) il carico dei cambiamenti imprevisti e di recuperare (quasi sempre) l’equilibrio minacciato, lo stress gli appariva una componente così essenziale dei processi vitali, che la sua assenza avrebbe implicato la morte.
Aveva anche notato che in alcune specifiche situazioni la capacità di recupero e di riadattamento risultava compromessa – e suggeriva per questi casi l’uso più corretto del termine ‘distress’. In generale l’esposizione a stimoli stressanti si risolve in una vittoria, con un incremento progressivo delle capacità di resistenza e di adattamento.
Cosa è successo – nella ricerca scientifica, nella pratica clinica e nelle comunicazioni sociali – da far cambiare così radicalmente il modo di ‘intendere’ lo stress fino a promuoverlo a principale fonte ‘iatrogena’ (diretta e indiretta) di una così vasta e complessa serie di disturbi somatici e psichici? Come si è sviluppato il percorso di ‘fraintendimenti’ ed ‘equivoci’ che ha portato alla situazione attuale?
Paradossalmente proprio la spiegazione ‘scientifica’ di Seyle del ‘circuito fisiologico dello stress’, a cavallo tra il sistema endocrino e quello nervoso, ha indotto molti (prima ancora di essere esplorata e compresa in tutta la sua complessità) a imboccare quella ‘scorciatoia gnoseologica’ che ha permesso di rileggere il rapporto mente/corpo in una prospettiva, per certi versi, assolutamente nuova: dopo secoli di separazione e di ostilità, corpo e mente sono stati finalmente promossi a … ‘coppia’ perfetta. Così affiatata e integrata – nella buona come nella cattiva sorte – che se nella saggezza popolare questa convinzione circolava da sempre, almeno per quanto riguardava la buona sorte (“mens sana in corpore sano”), spettava adesso alla medicina dimostrare che non è solo il corpo che si ammala e fa soffrire la mente, ma che anche la mente può ‘ammalarsi’ e coinvolgere il corpo nel suo patimento. Di questa impresa si è fatta carico storicamente la psichiatria, soprattutto quella parte più ancorata al modello biochimico, che non solo ha individuato e codificato tutte le possibili patologie mentali, ma ha anche ritenuto di identificarne le basi neuronali, i meccanismi disfunzionali e i correttivi terapeutici. Peccato che ‘la mente’ non sempre coincida perfettamente con il “cervello’ perché avremmo già a disposizione la farmacopea appropriata per tutti i disturbi mentali e comportamentali esistenti.
A parte il rischio di banalizzare ogni sofferenza, riducendola “a una specifica alterazione di un qualche neuromediatore e poi di curarla con uno psicofarmaco ad hoc” (p. 55), tale approccio ha consentito di eliminare dalla descrizione delle ‘malattie mentali’ le caratteristiche soggettive dell’esperienza psichica e di ricodificare i disturbi psichici all’interno di una statistica fenomenologica di segni e sintomi, che la diagnosi rileva ‘oggettivamente’ e la terapia farmacologica aggredisce ancora più ‘oggettivamente’. Private della rete relazionale (emotiva e simbolica), della memoria biografica individuale e della ‘narrazione’ personale, ricondotte esclusivamente al substrato fisico e biochimico che ‘dentro al corpo’ le sostiene, le funzioni mentali così indagate poco o nulla ci dicono dei pensieri, delle emozioni e degli affetti che quella mente ha prodotto, dei significati che ne hanno motivato i comportamenti, del senso (o del non senso) che ne giustifica l’esistenza.
Maggiori aspettative sulla possibilità di meglio conoscere il rapporto mente/corpo erano arrivate dall’ambito dei disturbi cosiddetti ‘psicosomatici’, terreno ideale nel quale verificare l’assunto che anche la mente può far ‘ammalare’ il corpo e al quale si è finito con l’applicare (erroneamente) lo stesso modello di causalità lineare (corpo > mente), riletto tuttavia in senso inverso (mente > corpo). Ma il ‘nodo’ psiche/soma – osservano Argentieri e Gosio – è ben più complesso e intrecciato di quanto ‘ingenuamente’ suggerito dall’ipotesi ‘psicogenetica’: “Quando parliamo di ‘psicosomatica’ cominciamo a navigare in acque mosse ed equivoche, al pari di quelle del nostro stress passe-partout. Il concetto, carezzato dai tempi di Ippocrate, può esprimere infatti l’idea che una patologia organica ben definita e oggettivamente riscontrabile (ad esempio un’ulcera) derivi da disturbi psicologici; viceversa, può riferirsi alle ripercussioni psichiche di uno stato corporeo (ad esempio l’ansia o la tensione che derivano – ma come potrebbe essere altrimenti? – da una colite cronica); ma più frequente viene adottata come formula svalutante e sbrigativa per catalogare come ‘malato immaginario’ chi accusa sintomi fisici senza base organica riscontrabile, secondo l’accezione meno corretta ma purtroppo a tutt’oggi ancora maggiormente diffusa nella pratica clinica. Tutto nell’umano esperire è psicosomatico, in salute e malattia, poiché la psiche – come insieme strutturale e funzionale – è in continua dinamica relazione sia con l’ambiente esterno, sia con quello interno corporeo. Ma dire che mente e corpo formano un tutt’uno, non equivale ad affermare che sono la stessa cosa” (p. 48).
Accettato il principio del reciproco ‘influenzamento’ (corpo < > mente), è stato semplice per la medicina generalizzare la presenza di stress in una infinità di altre malattie, come testimoniato dai vari manuali e trattati di medicina generale e specialistica – dalla cardiologia alla dermatologia, dalle malattie autoimmuni a quelle metaboliche – nei quali “è ormai consuetudine trovare un riferimento allo stress tanto stereotipato quanto generico nel paragrafo della cosiddetta etiopatogenesi, che elenca le cause e concause di ogni malattia” (p. 39). Stessa cosa succede nella pratica ambulatoriale. Quasi tutti i medici, anche se non possiedono specifiche competenze psicologiche o magari sono diffidenti verso ogni approccio psicodinamico “ hanno importato la parola stress nel loro vocabolario e la usano con larghezza nei colloqui diagnostici con i pazienti” (p. 41). I quali pazienti, esauriti gli esami clinici di routine e non raramente anche indagini specialistiche più raffinate, o intraprendono percorsi più ‘impegnativi’ per cercare di capire la natura di quella ‘sofferenza’ oppure si disperdono nell’universo eterogeneo e fantasioso di proposte e rimedi di ogni tipo, che assicurano di ‘combattere lo stress’ soprattutto attraverso il suo esatto contrario: il relax. Equivoco su equivoco!
Mai il marketing di ‘salute e benessere’ è stato così affollato e seducente: dai presidi più semplici (pillole, infusi, tisane, essenze profumate, integratori alimentari, energy drink, suonerie, poltrone, materassi…) alle proposte più coinvolgenti (massaggi, bagni, docce, percorsi fitness, ritiri silenziosi, balli, tecniche di respirazione, rilassamento, yoga, meditazione…). C’è solo l’imbarazzo della scelta. Se lo stress è diventato tutto o niente – scontentezza, conflitto, tensione, paura, disturbo, disagio, noia – qualunque attività che produca piacere viene subito promossa a ‘terapia elettiva’ nella convinzione indiscussa di un continuum corpo/mente e in una varietà di approcci psicoterapeutici (ludoterapia, aromaterapia, musicoterapia, danzaterapia…) di dubbia estrazione e di ancor più dubbia professionalità (personal trainer, life-coach…): “Nei provvedimenti terapeutici antistress entrano persino dettami come ridere, cantare, fare sesso, per i quali non dovrebbe esserci proprio bisogno di ricorrere alla prescrizione. In un pot-pourri di banalità, sostanze e nozioni più o meno scientifiche (di solito frammentate e talvolta francamente distorte dal suo uso mediatico), si perdono così i confini tra salute e patologia, tra indicazioni specialistiche e soluzioni ‘fai da te’, e proliferano illusioni e pregiudizi” (p. 99).
A partire dallo stress come emblema del disagio contemporaneo e dai rimedi proposti per contrastarlo, quello che infine emerge dalle pagine di questo volumetto è una riflessione piuttosto ampia e amara sulle mitologie correnti della società del benessere e sui massicci processi di evitamento del principio di realtà, che ne conseguono. Invece di ‘attrezzarci’ psicologicamente ad affrontare la vulnerabilità e l’incertezza dell’esistenza, a tollerare le frustrazioni che derivano dal mancato appagamento dei desideri, a far fronte alle difficoltà o ai problemi di ‘adattamento’ con realismo e consapevolezza, continuiamo a stressarci “rincorrendo gli agi e ora ci stressiamo per smaltirne le scorie, chiedendoci come poter mantenere gli uni senza produrre le altre” (p. 112).