A proposito di ricordi
Le biografie degli uomini illustri oscillano sempre tra agiografia e denigrazione e occorre leggerne almeno due o tre, di autori diversi, per ottenere un profilo attendibile del personaggio. Con le autobiografie il problema non si pone. Dal momento che chi scrive di sé ci mette comunque la faccia (come si suol dire), anche attraverso le distorsioni volontarie (o involontarie) dell’autopercezione o i travisamenti della memoria si impegna a restituirci un volto, un profilo, un’autorappresentazione assolutamente credibile, non perché suffragata da prove storiche e testimoniali, ma perché coerente con l’identità desiderata, percepita e dichiarata.
Ho ‘incontrato’ più volte Edgar Morin negli anni della formazione, dell’insegnamento e della attività psicologica, citato in modo ubiquitario da filosofi e sociologi, politologi e antropologi, letterati e artisti, educatori e riformisti. Spesso al centro di dibattiti molto vivaci sulla funzione della cultura, degli intellettuali, della scienza, della politica nella società contemporanea, Morin è stato anche un convinto ‘militante’, un autore ‘impegnato’ su parecchi fronti (dalla Resistenza al maggio francese, dalla questione algerina all’ invasione dell’Ungheria, dall’adesione giovanile al partito comunista francese all’analisi critica del marxismo e del capitalismo…), maturando attraverso molteplici esperienze quella ‘teoria della complessità’, che lo ha reso famoso a livello internazionale e che ha contribuito a diffondere a vari livelli una consapevolezza maggiore dei rapporti e delle relazioni esistenti non solo fra i vari saperi, la tecnologia, le scienze, ma all’interno degli stessi processi e metodi di ricerca, di conoscenza e di comunicazione.
Della ‘teoria della complessità’ questa autobiografia scritta all’età di 99 anni – I ricordi mi vengono incontro, Raffaello Cortina, Milano 20021 – ne è, in un certo senso, una dimostrazione empirica e una descrizione appassionata. Il fascino deriva dalla estrema ricchezza e varietà dei ricordi, che Morin raccoglie così come affiorano alla sua mente e consegna al lettore senza filtri eccessivi, né di giustificazione né di spiegazione. “Sono arrivati – scrive Morin – e mi hanno invaso a seconda dell’ispirazione, delle circostanze, interpellandosi a vicenda e alcuni ne hanno fatti emergere altri dall’oblio. Temo che ve ne siano di molto cari e molto significativi che giungeranno troppo tardi. Taluni mi chiedono un’estrema discrezione e aspettano in silenzio. Ve ne sono altri, custoditi nel mio cervello, che non sono riusciti a risvegliarsi” (p. 1).
Vigile e scrupoloso nel riferire un nome, un luogo, una data, una circostanza, un dettaglio Morin tesse di pagina in pagina con una semplicità narrativa disarmante la trama complessa di una vita, di un’esistenza intimamente intrecciata con altre vite ed esistenze, lungo un periodo e in contesti, segnati in maniera decisiva dagli eventi della Storia del Novecento.
Attraversata da drammi crudeli e da utopie falsamente riparative, questa Storia sembra essere stata ormai consegnata all’archivio collettivo in una forma irresponsabilmente semplificata e stereotipata, buona per creare dei ‘fondali ad effetto’ nei film e nelle serie televisive di spy stories, di intrighi internazionali, di scontri armati o di vicende sentimentali contrastate.
Nella rievocazione di Morin, invece, il rapporto tra vicende personali e vicende collettive è così intrecciato e ‘contaminato’ che è richiesto al lettore di effettuare continuamente una sorta di costante inversione ‘figura/sfondo’ per cogliere il senso della narrazione e per seguire l’intrigo non sempre chiaro ed evidente delle ideologie dichiarate, delle azioni effettuate e dei risultati ottenuti. Dai nomi delle persone che lo studioso ha incontrato – in contesti esistenziali assolutamente ordinari (una cena, un caffè, un viaggio, una vacanza, una conferenza…) – o con le quali ha avviato una conversazione, un dialogo, un confronto, in presenza o a distanza, viene fuori un lunghissimo elenco di intellettuali, di politici, di scrittori, di giornalisti, di personalità influenti (e anche di gente comune) che hanno avuto ruoli molto attivi nella vita culturale e sociale dell’Europa del dopoguerra, del Nord e Sud America, dell’Asia, dell’Africa.
Di tutte queste persone – anche di quelle che militavano in schieramenti opposti – Morin ne riconosce il valore intellettuale o politico o sociale. Non è conciliante né tenero nei giudizi e nelle valutazioni che esprime nei confronti delle loro idee o delle loro azioni, ma qui è più interessato a mostrarne soprattutto gli ‘aspetti di umanità’: il carattere, la personalità, le qualità, i difetti, i tic…
Parlando di Mitterand, ad esempio, conosciuto durante gli anni della Resistenza e frequentato per tutto l’arco della sua carriera politica, fino alla presidenza della Francia, lo definisce ‘un raffinato stratega politico’, che “con la sua eleganza e il suo dinamismo” aveva ‘sedotto’ il Comitato della Francia libera, ottenendo ad Algeri già nel 1943 l’approvazione e il riconoscimento di De Gaulle. Anche lui era stato sedotto “dal suo carisma e dal suo coraggio al limite della temerarietà” (p. 117) e parecchie volte chiese e ottenne per sé e per gli amici protezione, favori, incarichi, condividendo e sostenendo sostanzialmente il suo operato politico. Tutto ciò non gli impedisce di definirlo anche un ‘furbo’ molto ambizioso e di ricordare che prima di aderire alla Resistenza, Mitterand si era distinto tra gli studenti di estrema destra, collaborando in parte anche con il governo di Vichy.
In alcuni passaggi della narrazione Morin rischia di cadere nel gossip, quando rivela intrighi sentimentali o avventure sessuali (dei quali è stato testimone non sempre involontario) di personalità importanti del mondo accademico e culturale francese (come Margherite Duras, Jean Paul Sartre, Cornelius Castoriadis, Andrè Breton, Roland Barthes…). Ma non essendo meno tenero quando parla delle proprie avventure sentimentali o dei propri amori, si capisce bene che l’intenzione non è quella di stabilire un confronto o un concorso fra vite parallele al fine di assegnare un premio a quella ‘migliore’, ma di restituire per quanto possibile al lettore la complessità dei fattori presenti e interagenti all’interno di ogni singola esistenza e delle dinamiche relazionali che ne caratterizzano l’espressione. Ne viene fuori un grande affresco della condizione umana in tutta la sua varietà, complessità, contraddittorietà, particolarità e bellezza, che ha i colori e le forme di un tempo e di un’epoca storica ben precisa, che in un modo o nell’altro ancora ci riguarda e ci affascina.
Così, dal vertice dei suoi 99 anni, della vita intensa e piena che ha vissuto Morin si può permettere di dirci, con assoluto disincanto, di non essere stato lui il ‘protagonista’, di avere avuto come tutti un ‘io differente, un io indifferente, un io spettatore, un io testimone, un io forse più profondo’, ma di avere semplicemente ‘permesso’ alla ‘vita’ di vivere in lui.
“Ho sempre la curiosità e il gusto infantile del gioco, le aspirazioni adolescenziali, pur avendo perduto ogni illusione. Sono posseduto dal mondo, posseduto dal mistero, posseduto dalla meraviglia, posseduto dalla rivolta, posseduto dal mio daimon” (p. 644).